Il giorno della Memoria: Candido Poli dalla F.Tosi ai lager nazisti
Candido Poli
dalla Franco Tosi ai lager nazisti
dalla Franco Tosi ai lager nazisti
“Candido Poli è un giovane operaio socialista arruolatosi in precedenza nelle formazioni combattenti in Val d’Ossola. Ai primi dell’anno 1944, egli fu mandato a casa per occuparsi dell’acquisto o della requisizione di una partita di armi, in possesso di un cittadino di Busto Arsizio. Per sua sfortuna, Poli capitò a Legnano proprio nel pieno della protesta operaia e alla vigilia dell’irruzione tedesca alla Tosi: così, nella notte del 4 gennaio, finì per incappare in una pattuglia mista italo-tedesca che andava perquisendo la brughiera alla periferia di Busto. Catturato, ebbe un inatteso aiuto da un maresciallo dei catabinieri, che fece mettere a verbale che il Poli non era armato (mentre in realtà possedeva una pistola: ma questa sarebbe stata una ragione sufficiente per la sua immediata fucilazione) e gli suggerì come comportarsi negli interrogatori previsti. Trasferito nei giorni successivi al carcere milanese di San Vittore, Poli ebbe modo di incontrare gli uomini arrestati alla Franco Tosi e dovette peraltro subire le nuove pesanti “attenzioni” da parte di ufficiali SS. Il 6 aprile iniziò per il partigiano legnanese, convinto di dover semplicemente andare a lavorare seppure forzatamente, il viaggio con destinazione Mauthausen”.
Giorgio Vecchio, Nicoletta Bigatti, Alberto Centinaio, “Giorni di guerra. Legnano 1939-1945”, Anpi Legnano 2009, pp. 201-202
Giorgio Vecchio, Nicoletta Bigatti, Alberto Centinaio, “Giorni di guerra. Legnano 1939-1945”, Anpi Legnano 2009, pp. 201-202
Il racconto di Candido Poli
Mauthausen, Dachau, Bernau
Mauthausen, Dachau, Bernau
"Il mio arrivo a Mauthausen è un trauma. Tutto quello che sapevo fino ad allora era che si andava a lavorare, almeno così ci avevano detto, e il lavoro non faceva paura a nessuno. La guerra finirà, pensavo, e - lavorare in Tosi o in Germania - prima o poi tornerò a casa. Non ero a conoscenza dei campi di sterminio, non sapevo cosa fossero e tanto meno ero a conoscenza delle condizioni in cui avremmo dovuto lavorare.
La prima volta che mi sono reso conto di come stavano le cose e ho pensato in modo crudo “qui non c'è scampo” è stato quando ci hanno fatto scendere dal treno: è mattino prestissimo e vedo che continuano ad arrivare tradotte cariche di gente. Penso: ma come, siamo partiti in quattro gatti e qui siamo migliaia e c'è gente da tutta Europa!
Già, il viaggio era stato un dramma. Nel nostro vagone eravamo una sessantina e tutti in piedi, non si poteva stare sdraiati perché non c'era posto. Vicino al portellone un mucchietto di segatura: scopriremo più tardi che doveva servire come gabinetto per tutti quanti.
Sette giorni di viaggio: una volta sola ci hanno aperto il portellone e all'arrivo a Mauthausen, il vagone era ormai un inferno fetido. C’era un buio pesto e un freddo pungente.
Più passavano i giorni più si scatenava nel vagone una vera e propria lotta per la sopravvivenza, alcuni cominciavano ad avere la dissenteria e si sporcavano e allora venivano automaticamente isolati in fondo al vagone perché puzzavano. La fame faceva diventare cattivi: i più fortunati che avevano conservato qualcosa da mangiare se ne stavano in un cantuccio ma di notte si sentiva anche il respiro del vicino e bastava sentire che qualcuno faceva andare la bocca e i denti per far scatenare litigi. Poi le soste interminabili e allora si pensava: forse siamo arrivati, adesso ci fanno scendere e ci daranno da mangiare, magari anche qualcosa di caldo. Se dovremo lavorare ci daranno da mangiare e ci faranno dormire, poi invece si scopriva che eravamo solo fermi su un binario morto perché doveva passare qualche convoglio militare.
La prima volta ci hanno aperto il portellone dopo Innsbruck, ci hanno dato un pezzo di pane e una brodaglia in un bicchiere, la seconda volta alla stazione di Mauthausen ma ormai qualcuno, tra i più anziani, era già morto.
Scesi dal treno, nel tratto di strada che va su verso il campo si cominciano a vedere cani lupo che azzannano quelli che escono dalla fila dove siamo incolonnati. Ricordo che la scena mi aveva fatto particolare impressione. Quando ero sul treno non ne potevo più d'arrivare, mi immaginavo certo, almeno da come stavano andando le cose, che la vita di lavoro in Germania non sarebbe stata facile ma qui i cani sbranavano la gente e allora ho cominciato a pensare: qui non si va a lavorare, è tutto un inganno, devo stare attento a tenere cara la vita.
Al campo altro trauma: ci fanno spogliare tutti e ci lasciano nudi e in piedi per cinque o sei ore. Tutti: giovani, vecchi, donne e bambini. Io avevo vent'anni ma certo non c‘era la spigliatezza che ci può essere oggi e il fatto d'aver vicino un uomo di 50-60 anni anche lui nudo, trattato anche peggio di me e preso a bastonate proprio perché era vecchio, creava un forte imbarazzo. Ma poi non si ha neanche più il tempo di farci caso perché si comincia a pensare solo al freddo. Siamo in aprile ma fa un freddo cane e bisogna stare in piedi immobili per ore e aspettare il proprio turno.
E' la selezione: un signore in camice bianco, non so se medico o cos'altro, dietro un tavolino, chiama uno per uno in tedesco. La prima volta che mi chiamano e mi danno il numero di matricola non ho capito nulla. E come potevo sapere che il Zwei Tausand Ein hundert Zwei und Dreizing ero io? lo ero il 2132 e in tedesco non lo sapevo ma poi ho dovuto impararlo subito e in fretta perché chi non lo imparava subito ci rimetteva la vita a suon di calci e bastonate. Poi la rasatura a zero di tutti i peli che si hanno sul corpo e poi la divisione: Links, rechts. Links, rechts (sinistra, destra).
Mi mandano a sinistra, mi consegnano una saponetta piccolissima e sabbiosa e un asciugamano in tela molto piccolo anche lui, ci fanno entrare in gruppo in un locale che sarà stato 6 o 7 metri per altrettanti: era la sala delle docce ma non lo sapevamo ancora. La prima volta che siamo entrati avevamo paura perché non si sapeva cosa sarebbe successo dopo. A entrarci era già stata un’impresa perché le SS tiravano bastonate ai lati del gruppo e allora ci si accalcava al centro.
Una volta dentro chiudono ermeticamente la porta alle spalle e allora gridiamo... adesso cosa faranno? Poi d'improvviso da alcuni bocchettoni sulle pareti ci vengono addosso dei getti d'acqua: è così che ci lavano.
Poi tutto finisce e aprono una porta dalla parte opposta da cui siamo entrati. Ci consegnano delle divise in tela e ci assegnano alle baracche. Quando ho un attimo di tempo per fermarmi a pensare mi guardo attorno e mi accorgo che i bambini che hanno viaggiato con noi non ci sono più, quelli di 12 o l3 anni hanno una baracca solo per loro ma gli altri, quelli più piccoli, non si vedono più; quelli molto anziani, anche loro non si vedono più.
Solo più tardi saprò quale fine era stata loro riservata: la camera a gas perché gli stessi stanzoni che servivano per le docce servivano anche ad altro uso. Le donne invece erano già state separate prima.
Stiamo una settimana in baracca a Mauthausen poi mi trasportano a Dachau. Qui fanno di nuovo la disinfezione ma non la selezione e mi destinano subito ad una baracca. Successivamente mi trasferiscono ancora e mi mandano in un sottocampo di Dachau che si chiama Bernau. Difficilmente venivano trasporti da un campo madre a un altro campo madre e non so come mai da Mauthausen mi hanno portato a Dachau e poi ancora nel sottocampo, ma forse proprio questa è stata la mia fortuna…
Il kapò della mia baracca era un cecoslovacco al quale poi salvammo la vita. Picchiava sì, ma c'era modo e modo di picchiare, lui non picchiava con cattiveria, non picchiava tanto da rovinare una persona: gli altri sì, gli altri massacravano. Dopo la Liberazione fecero il processo anche a lui: mi chiamarono a testimoniare, mi portarono in barella e dissi come si era comportato con noi. Le mie parole erano tenute in considerazione e il kapò fu graziato.
In baracca c'era gente di tutte le nazionalità e di tutti i tipi, francesi, russi, ungheresi, due australiani, anche dei tedeschi stessi, un triestino che aveva ammazzato una vecchia per rubare e poi un prete francese: avevo scoperto che era prete perchè ogni tanto lo vedevo che si metteva in un cantuccio con qualche altro francese, aveva fatto una piccolissima croce con due pezzettini di legno anche se era proibito tenere qualsiasi cosa e per questo poteva rischiare la vita.
A lavorare ci mandavano dappertutto. Spesso ci mandavano in un campo all'aperto, al freddo, tutto il giorno e con qualsiasi tempo. E allora le cose più banali diventavano tragedie: uno per andare al gabinetto doveva chiedere il permesso al comandante: Kommandant, ich muss aut den Abort gehen... ma la SS faceva finta di non sentire oppure ti diceva che non si poteva e te lo faceva capire facendo menare la frusta che aveva in mano e così per tutto il giorno.
Ad un certo punto a lavorare in quelle condizioni ci si debilita, non si sta più in piedi. Le reni diventano sempre più deboli e il freddo ti stimola di più, la vescica ti scoppia e uno non riesce più a controllarsi e, pur con tutto lo sforzo, se la fa addosso mentre lavora. Ma anche questo non si poteva fare. Guai! Ne ho visti tanti pestati a sangue e ridotti in fin di vita solo perché si erano sporcati.
I bisogni corporali e la dissenteria erano un incubo. E poi i pidocchi: noi eravamo ormai abituati e non ci facevamo più caso anche se erano terribilmente fastidiosi ma avevamo paura perché le SS punivano quelli che avevano i pidocchi. Avevano paura delle epidemie. Un giorno mi ricordo di un gran trambusto, le SS erano eccitatissime: fanno l'appello, ci mettono di nuovo fuori tutti nudi, in piedi e immobili al freddo per ore; entrano nelle baracche e buttano all'aria tutto, perquisiscono dappertutto, gridano, urlano e corrono. Il perché lo veniamo a sapere dopo qualche giorno: c'era stato l’attentato a Hitler (20 luglio 1944, nda). Ricordo anche che, a questa notizia, c'era stata un po' la sensazione che la guerra potesse essere sul punto di finire ma poi finimmmo per pensare che la vita al campo sarebbe stata più dura di prima.
Alcune volte andavamo a disinnescare le bombe inesplose: dovevamo scavare piano piano una buca attorno alla bomba e anche qui molti, tanti, sono saltati in aria proprio mentre stavano scavando. Ma anche al campo si poteva morire per nulla, per un capriccio delle SS e da un momento all'altro.
La prima volta che mi sono reso conto di come stavano le cose e ho pensato in modo crudo “qui non c'è scampo” è stato quando ci hanno fatto scendere dal treno: è mattino prestissimo e vedo che continuano ad arrivare tradotte cariche di gente. Penso: ma come, siamo partiti in quattro gatti e qui siamo migliaia e c'è gente da tutta Europa!
Già, il viaggio era stato un dramma. Nel nostro vagone eravamo una sessantina e tutti in piedi, non si poteva stare sdraiati perché non c'era posto. Vicino al portellone un mucchietto di segatura: scopriremo più tardi che doveva servire come gabinetto per tutti quanti.
Sette giorni di viaggio: una volta sola ci hanno aperto il portellone e all'arrivo a Mauthausen, il vagone era ormai un inferno fetido. C’era un buio pesto e un freddo pungente.
Più passavano i giorni più si scatenava nel vagone una vera e propria lotta per la sopravvivenza, alcuni cominciavano ad avere la dissenteria e si sporcavano e allora venivano automaticamente isolati in fondo al vagone perché puzzavano. La fame faceva diventare cattivi: i più fortunati che avevano conservato qualcosa da mangiare se ne stavano in un cantuccio ma di notte si sentiva anche il respiro del vicino e bastava sentire che qualcuno faceva andare la bocca e i denti per far scatenare litigi. Poi le soste interminabili e allora si pensava: forse siamo arrivati, adesso ci fanno scendere e ci daranno da mangiare, magari anche qualcosa di caldo. Se dovremo lavorare ci daranno da mangiare e ci faranno dormire, poi invece si scopriva che eravamo solo fermi su un binario morto perché doveva passare qualche convoglio militare.
La prima volta ci hanno aperto il portellone dopo Innsbruck, ci hanno dato un pezzo di pane e una brodaglia in un bicchiere, la seconda volta alla stazione di Mauthausen ma ormai qualcuno, tra i più anziani, era già morto.
Scesi dal treno, nel tratto di strada che va su verso il campo si cominciano a vedere cani lupo che azzannano quelli che escono dalla fila dove siamo incolonnati. Ricordo che la scena mi aveva fatto particolare impressione. Quando ero sul treno non ne potevo più d'arrivare, mi immaginavo certo, almeno da come stavano andando le cose, che la vita di lavoro in Germania non sarebbe stata facile ma qui i cani sbranavano la gente e allora ho cominciato a pensare: qui non si va a lavorare, è tutto un inganno, devo stare attento a tenere cara la vita.
Al campo altro trauma: ci fanno spogliare tutti e ci lasciano nudi e in piedi per cinque o sei ore. Tutti: giovani, vecchi, donne e bambini. Io avevo vent'anni ma certo non c‘era la spigliatezza che ci può essere oggi e il fatto d'aver vicino un uomo di 50-60 anni anche lui nudo, trattato anche peggio di me e preso a bastonate proprio perché era vecchio, creava un forte imbarazzo. Ma poi non si ha neanche più il tempo di farci caso perché si comincia a pensare solo al freddo. Siamo in aprile ma fa un freddo cane e bisogna stare in piedi immobili per ore e aspettare il proprio turno.
E' la selezione: un signore in camice bianco, non so se medico o cos'altro, dietro un tavolino, chiama uno per uno in tedesco. La prima volta che mi chiamano e mi danno il numero di matricola non ho capito nulla. E come potevo sapere che il Zwei Tausand Ein hundert Zwei und Dreizing ero io? lo ero il 2132 e in tedesco non lo sapevo ma poi ho dovuto impararlo subito e in fretta perché chi non lo imparava subito ci rimetteva la vita a suon di calci e bastonate. Poi la rasatura a zero di tutti i peli che si hanno sul corpo e poi la divisione: Links, rechts. Links, rechts (sinistra, destra).
Mi mandano a sinistra, mi consegnano una saponetta piccolissima e sabbiosa e un asciugamano in tela molto piccolo anche lui, ci fanno entrare in gruppo in un locale che sarà stato 6 o 7 metri per altrettanti: era la sala delle docce ma non lo sapevamo ancora. La prima volta che siamo entrati avevamo paura perché non si sapeva cosa sarebbe successo dopo. A entrarci era già stata un’impresa perché le SS tiravano bastonate ai lati del gruppo e allora ci si accalcava al centro.
Una volta dentro chiudono ermeticamente la porta alle spalle e allora gridiamo... adesso cosa faranno? Poi d'improvviso da alcuni bocchettoni sulle pareti ci vengono addosso dei getti d'acqua: è così che ci lavano.
Poi tutto finisce e aprono una porta dalla parte opposta da cui siamo entrati. Ci consegnano delle divise in tela e ci assegnano alle baracche. Quando ho un attimo di tempo per fermarmi a pensare mi guardo attorno e mi accorgo che i bambini che hanno viaggiato con noi non ci sono più, quelli di 12 o l3 anni hanno una baracca solo per loro ma gli altri, quelli più piccoli, non si vedono più; quelli molto anziani, anche loro non si vedono più.
Solo più tardi saprò quale fine era stata loro riservata: la camera a gas perché gli stessi stanzoni che servivano per le docce servivano anche ad altro uso. Le donne invece erano già state separate prima.
Stiamo una settimana in baracca a Mauthausen poi mi trasportano a Dachau. Qui fanno di nuovo la disinfezione ma non la selezione e mi destinano subito ad una baracca. Successivamente mi trasferiscono ancora e mi mandano in un sottocampo di Dachau che si chiama Bernau. Difficilmente venivano trasporti da un campo madre a un altro campo madre e non so come mai da Mauthausen mi hanno portato a Dachau e poi ancora nel sottocampo, ma forse proprio questa è stata la mia fortuna…
Il kapò della mia baracca era un cecoslovacco al quale poi salvammo la vita. Picchiava sì, ma c'era modo e modo di picchiare, lui non picchiava con cattiveria, non picchiava tanto da rovinare una persona: gli altri sì, gli altri massacravano. Dopo la Liberazione fecero il processo anche a lui: mi chiamarono a testimoniare, mi portarono in barella e dissi come si era comportato con noi. Le mie parole erano tenute in considerazione e il kapò fu graziato.
In baracca c'era gente di tutte le nazionalità e di tutti i tipi, francesi, russi, ungheresi, due australiani, anche dei tedeschi stessi, un triestino che aveva ammazzato una vecchia per rubare e poi un prete francese: avevo scoperto che era prete perchè ogni tanto lo vedevo che si metteva in un cantuccio con qualche altro francese, aveva fatto una piccolissima croce con due pezzettini di legno anche se era proibito tenere qualsiasi cosa e per questo poteva rischiare la vita.
A lavorare ci mandavano dappertutto. Spesso ci mandavano in un campo all'aperto, al freddo, tutto il giorno e con qualsiasi tempo. E allora le cose più banali diventavano tragedie: uno per andare al gabinetto doveva chiedere il permesso al comandante: Kommandant, ich muss aut den Abort gehen... ma la SS faceva finta di non sentire oppure ti diceva che non si poteva e te lo faceva capire facendo menare la frusta che aveva in mano e così per tutto il giorno.
Ad un certo punto a lavorare in quelle condizioni ci si debilita, non si sta più in piedi. Le reni diventano sempre più deboli e il freddo ti stimola di più, la vescica ti scoppia e uno non riesce più a controllarsi e, pur con tutto lo sforzo, se la fa addosso mentre lavora. Ma anche questo non si poteva fare. Guai! Ne ho visti tanti pestati a sangue e ridotti in fin di vita solo perché si erano sporcati.
I bisogni corporali e la dissenteria erano un incubo. E poi i pidocchi: noi eravamo ormai abituati e non ci facevamo più caso anche se erano terribilmente fastidiosi ma avevamo paura perché le SS punivano quelli che avevano i pidocchi. Avevano paura delle epidemie. Un giorno mi ricordo di un gran trambusto, le SS erano eccitatissime: fanno l'appello, ci mettono di nuovo fuori tutti nudi, in piedi e immobili al freddo per ore; entrano nelle baracche e buttano all'aria tutto, perquisiscono dappertutto, gridano, urlano e corrono. Il perché lo veniamo a sapere dopo qualche giorno: c'era stato l’attentato a Hitler (20 luglio 1944, nda). Ricordo anche che, a questa notizia, c'era stata un po' la sensazione che la guerra potesse essere sul punto di finire ma poi finimmmo per pensare che la vita al campo sarebbe stata più dura di prima.
Alcune volte andavamo a disinnescare le bombe inesplose: dovevamo scavare piano piano una buca attorno alla bomba e anche qui molti, tanti, sono saltati in aria proprio mentre stavano scavando. Ma anche al campo si poteva morire per nulla, per un capriccio delle SS e da un momento all'altro.
Un’altra cosa insopportabile era il silenzio. Già c'era difficoltà a capirsi perché tra noi si parlava un miscuglio di lingue che sa Dio come facevamo ad intenderci ma in più non si poteva parlare, non ci si poteva muovere, non si poteva far niente di niente se non quello che ci veniva ordinato, altrimenti erano botte e bastonate. L'eliminazione fisica era crudele, quella morale e psicologica deprimente. Il non poter parlare, il sentirti solo come un cane, il sapere che le SS ti possono ammazzare quando vogliono...
Li vedi ogni giorno, quelli impiccati, quelli moribondi che mandano al crematorio per bruciarli, vedi tutto, le atrocità più assurde e non puoi dire nulla, anzi cerchi solo di non fare la stessa fine e di salvare la pelle. C'è da impazzire perché poi devi fare solo le cose a comando e arrivi a un punto che neppure riesci a fare niente altro se non te lo comandano, ma anche in questo caso hai il terrore che se sbagli è finita e a loro pur di vivere anche solo un giorno in più non ti importa di essere ridotto a fare qualsiasi bassezza…
Li vedi ogni giorno, quelli impiccati, quelli moribondi che mandano al crematorio per bruciarli, vedi tutto, le atrocità più assurde e non puoi dire nulla, anzi cerchi solo di non fare la stessa fine e di salvare la pelle. C'è da impazzire perché poi devi fare solo le cose a comando e arrivi a un punto che neppure riesci a fare niente altro se non te lo comandano, ma anche in questo caso hai il terrore che se sbagli è finita e a loro pur di vivere anche solo un giorno in più non ti importa di essere ridotto a fare qualsiasi bassezza…
La nostra Liberazione avviene il 6 maggio 1945: il nostro campo viene circondato contemporaneamente dalle forze francesi e inglesi quando anch'io sono ridotto allo stremo e sono già nel lazzaretto.
Il giorno dopo il campo passa sotto la giurisdizione degli americani e vengono date 24 ore di carta libera a tutti gli internati: io non ne usufruisco perchè non riesco più a camminare. Sono dichiarato intrasportabile per un mese intero ma molti internati escono dal campo, invadono il paese vicino e quasi lo distruggono tanto sono ridotti a bestie, terrorizzati ed euforici insieme.
Quando incominciano le prime visite mediche degli americani siamo ormai dei ricettacoli ambulanti di parassiti, ferite purulente da ogni parte, scheletri con il cervello annebbiato. Poi vengo trasportato in un ospedale della Foresta Nera che era stato requisito ai tedeschi dalle forze alleate e qui sono rimasto fino al novembre del '45.
Ricordo che un giorno siamo usciti dall'ospedale: eravamo in 5 italiani ed eravamo diventati un po' un caso per l'ospedale perchè non ci trovavano più e neppure noi sapevamo più tornare. Tra noi c'era un greco laureato il cui padre però era italiano e un tale Montini, che è ancora vivo e lavora a Roma. Non so come ci ritrovarono poi.
Dopo altre cure ci mettono su un treno e ci spediscono in Italia al centro ospedaliero di Merano. Per tutta la permanenza in ospedale recupererò 20 chili di peso con una media di un chilo al giorno.
Riuscirò a vedere i miei genitori solo nella primavera del '46. Mio padre aveva saputo che ero ancora vivo dalla radio e allora vennero a trovarmi a Merano. Fino al novembre '45 risultavo vivo presso la CR internazionale ma non erano riusciti a trovarmi.
A Legnano era già arrivata la notizia che ero stato fucilato".
Paolo Pozzi, “Quei ventenni del ’43. Appunti di cronaca e storia della Resistenza nell’Alto Milanese”, Macchione Editore 1995, pp. 119-121
Oggi Candido Poli è un giovanotto di 90 anni e gode ottima salute. Gli auguriamo tutti tanta salute ancora.Il giorno dopo il campo passa sotto la giurisdizione degli americani e vengono date 24 ore di carta libera a tutti gli internati: io non ne usufruisco perchè non riesco più a camminare. Sono dichiarato intrasportabile per un mese intero ma molti internati escono dal campo, invadono il paese vicino e quasi lo distruggono tanto sono ridotti a bestie, terrorizzati ed euforici insieme.
Quando incominciano le prime visite mediche degli americani siamo ormai dei ricettacoli ambulanti di parassiti, ferite purulente da ogni parte, scheletri con il cervello annebbiato. Poi vengo trasportato in un ospedale della Foresta Nera che era stato requisito ai tedeschi dalle forze alleate e qui sono rimasto fino al novembre del '45.
Ricordo che un giorno siamo usciti dall'ospedale: eravamo in 5 italiani ed eravamo diventati un po' un caso per l'ospedale perchè non ci trovavano più e neppure noi sapevamo più tornare. Tra noi c'era un greco laureato il cui padre però era italiano e un tale Montini, che è ancora vivo e lavora a Roma. Non so come ci ritrovarono poi.
Dopo altre cure ci mettono su un treno e ci spediscono in Italia al centro ospedaliero di Merano. Per tutta la permanenza in ospedale recupererò 20 chili di peso con una media di un chilo al giorno.
Riuscirò a vedere i miei genitori solo nella primavera del '46. Mio padre aveva saputo che ero ancora vivo dalla radio e allora vennero a trovarmi a Merano. Fino al novembre '45 risultavo vivo presso la CR internazionale ma non erano riusciti a trovarmi.
A Legnano era già arrivata la notizia che ero stato fucilato".
Paolo Pozzi, “Quei ventenni del ’43. Appunti di cronaca e storia della Resistenza nell’Alto Milanese”, Macchione Editore 1995, pp. 119-121
Giancarlo Restelli
http://restellistoria.altervista.org/pagine-di-storia/giorno-della-memoria/
- I deportati politici di Legnano nei lager nazisti. Cimitero monumentale di Legnano
http://www.youtube.com/watch?v=g3-KFi7rhbM
- Legnano incontra il Ghetto di Cracovia
http://www.youtube.com/watch?v=v3aMcp8si1s
Pubblicato domenica 26 gennaio 2014
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