sabato 23 maggio 2015

Una piazzetta dedicata a Anacleto Tenconi

Tratto da
http://www.legnanonews.com/news/1/48690/una_piazzetta_dedicata_a_anacleto_tenconi

Una piazzetta dedicata a Anacleto Tenconi

Anacleto Tenconi, sindaco di Legnano per 12 anni e consigliere comunale per 4 decenni,avrà una piazzetta dedicata alla memoria. Lo ha deciso la Giunta Centinaio con una propria delibera.
"In occasione del Settantesimo anniversario della Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista, l’Amministrazione comunale - leggiamo nel documento -intende ricordare Anacleto Tenconi, politico indimenticabile per i molti cittadini protagonisti della vita legnanese di quegli anni, esempio per i giovani di oggi per le sue doti di umanità, onestà e correttezza, partigiano cattolico, esponente di spicco del Comitato di Liberazione Nazionale e delle formazioni partigiane, primo Sindaco di Legnano del periodo post Liberazione dal 1945 al 1946 e dal 1951 al 1961".
L'area individuata è quella che collega la Piazza Carroccio al Lungo Fiume Olona, alle spalle dell'ex Tribunale.
La proposta è partita dal segretario cittadino del Partito Democratico, Alberto Dell'Acqua, che nello scorso mese di marzo aveva diffuso un appello in cui il Partito Democratico di Legnano segnalava che "attraverso anche il proprio Forum Cultura PD, coordinato dall'amica Giuseppina Picco, ritiene opportuno riprendere una proposta lanciata alcuni anni fa in Consiglio Comunale dal Gruppo Consiliare dell'Ulivo e appoggiata dall'ANPI di Legnano per ricordare nella toponomastica cittadina Anacleto Tenconi, un legnanese indimenticabile per molti e un esempio per i giovani di oggi, proprio a 70 anni da quegli eventi".
"Dopo Tenconi - così rilancia invece sul suo blog Daniele Berti - diventa doveroso ricordare anche Eliseo Crespi, altro amministratore pubblico degli anni Cinquanta che ha lasciato in eredità al Comune di Legnano i suoi beni, la cui entità verrà conosciuta a breve".

Pubblicato venerdì 22 maggio 2015 

giovedì 21 maggio 2015

Per conoscere Giuseppe Bollini

Settant'anni fa, Bollini, ventitreenne partigiano legnanese, attivista dell’Azione Cattolica, lavoratore della Franco Tosi, l’8 febbraio 1945 a Traffiume di Cannobbio, dopo essersi rifiutato di aderire alla Repubblica Sociale cerca di unirsi ai partigiani cattolici della Val Grande. L'appuntamento va a monte per la presenza in loco dei nazisti e Giuseppe si aggrega ad un gruppo di garibaldini: la banda del "Mounc" dove militano comunisti e socialisti che lo chiamano "il clericale". Per evitare i rastrellamenti seguiti alla caduta della Repubblica dell'Ossola, la banda riparò in Svizzera. Al loro rientro, Giuseppe Bollini venne catturato dai nazisti e fucilato per rappresaglia dai fascisti. Ebbe la grande forza morale dettata dalla sua profonda fede cristiana di perdonare gli aguzzini, chiedendo che non venissero effettuate dai partigiani rappresaglie come vendetta per sua morte, consapevole che il suo sacrificio assieme a quello di tanti altri giovani sarebbe stato il fondamento di un’Italia libera e democratica. Giuseppe Bollini venne inizialmente sepolto nel cimitero di Cannobio (ora riposa nel Campo dei Partigiani al cimitero monumentale di Legnano) e sulla sua tomba come in seguito accanto alla lapide commemorativa non mancarono mai in fiori in tutti questi settant'anni passati.



La targa affissa nel luogo della fucilazione di Giuseppe Bollini a Traffiume di Cannobio


PER CONOSCERE Giuseppe Bollini:

LEGNANO : LANDONI, 1975
(consultabile presso la Biblioteca di Legnano)

Gavinelli, Mauro
LEGNANO : LANDONI, 1982
(consultabile presso la Biblioteca di Legnano)

Giorgio Vecchio
Vita e morte di un partigiano cristiano. Giuseppe Bollini e i giovani dell'Azione Cattolica nella ResistenzaIn Dialogo, 2015
          (ordinabile in libreria)

http://www.incrocinews.it/arte-cultura/giuseppe-bollini-vita-e-morte-br-di-un-partigiano-cristiano-1.107494

Giuseppe Bollini: vita e morte di un partigiano cristiano

Tratto da http://www.incrocinews.it/arte-cultura/giuseppe-bollini-vita-e-morte-br-di-un-partigiano-cristiano-1.107494

Giuseppe Bollini: vita e morte di un partigiano cristiano

     
Un nuovo libro dello storico Giorgio Vecchio, pubblicato da "In dialogo", racconta la storia di un ventenne che testimoniò con la vita il suo desiderio di libertà e giustizia. Come fu per molti altri giovani di Azioni Cattolica in quei tragici mesi fra il 1943 e il 1945.


21.04.2015


Vita e morte di un partigiano cristiano. Giuseppe Bollini e i giovani dell’Azione Cattolica nella Resistenza è il titolo del nuovo libro di Giorgio Vecchio, professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Parma, che vorrebbe sollecitare «gli studiosi ad affrontare in modo più organico e completo questi argomenti, oltre che invogliare gli attuali appartenenti all’Azione Cattolica (e, certo, non solo loro) a riscoprire e valorizzare un patrimonio di identità e di fede che non deve andare disperso».
La storia di Giuseppe Bollini, giovane legnanese di Azione Cattolica, fucilato a soli 23 anni per rappresaglia dai fascisti, è quella di un ragazzo semplice, come tanti. “Tuttavia, posto di fronte al plotone di esecuzione, trovò la forza per morire con il massimo di dignità umana e di fede cristiana. Nel frangente estremo della vita, la sua esistenza raggiunse i tratti dell’eroismo”.
Due gli spazi formativi del carattere di Bollini: l’ambiente operaio e l’oratorio. L’Azione Cattolica, in particolare la Giac (Gioventù Italiana di Azione Cattolica) puntava su una formazione esigente che insisteva “su norme precise e ferree, sulla forza di volontà, sul sacrificio, sulla regolare devozione (specie eucaristica), sulla purezza, nonché sulla capacità di testimonianza pubblica (l’apostolato, nel gergo di allora)”. Un’educazione – il caso di Giuseppe Bollini è significativo – che ha preparato una generazione di giovani “ad affrontare la bufera della guerra mondiale, le tremende scelte della Resistenza e poi le fatiche della ricostruzione e dello sviluppo dell’Italia nel dopoguerra”.
Giuseppe Bollini partecipa alla lotta antifascista. Dopo l’8 settembre ’43 clandestinamente aiuta l’organizzazione logistica di alcune bande partigiane in montagna. Per un incredibile equivoco viene licenziato dalla Franco Tosi dove lavorava. Per evitare l’arruolamento nella Repubblica di Salò si consulta con don Carlo Riva di orientamento antifascista, poi opta per la montagna e si unisce con altri partigiani cattolici in Val Grande. Si unisce alla banda del “Mounc” dove militano comunisti e socialisti che lo chiamano “il clericale”.
In Piemonte siamo alla vigilia della repubblica partigiana dell’Ossola. La reazione nazifascista obbliga la banda partigiana ad un ripiegamento in Svizzera.
Al rientro in patria Bollini viene catturato dai tedeschi e ucciso per rappresaglia dalla milizia fascista. Il giovane legnanese riesce ad ottenere il conforto di don Ezio Bellorini che, dopo la Liberazione, scrive un memoriale delle ultime ore di vita di Bollini. Dal comandante il giovane  riesce ad ottenere il permesso di fare la comunione. Prima di essere fucilato si rivolge direttamente al comandante Nisi con queste parole: “Signor Capitano, io vi saluto e vi ringrazio. Io non ho rancore per nessuno. Perché ho sempre avuto  questo ideale: di vedere la nostra povera patria liberata da tanti odii e da tanta guerra e veramente grande e libera. Anzi questo è il mio ultimo desiderio che nessuno mai venga ad essere ucciso per vendicare la mia morte. Che anzi se qualcuno di voi cadesse in mano del mio capo “il Monco” di Miazzina, dica pure che questo è il mio espresso desiderio”. 
Giorgio Vecchio dedica parte del libro ai testimoni e martiri cattolici nell’Europa, molte volte riuniti in circoli di resistenza con modalità di aiuto per i resistenti. In Germania la figura universalmente riconosciuta è quella del teologo evangelista Dietrich Bonhoeffer con il suo lascito raccolto nel volume Resistenza e resa. Tra i giovani cattolici tedeschi quello di “Willi Graf, uno dei giovani della famosissima “Rosa Bianca” dei fratelli Hanss e Sophie Scholl, che si era in precedenza formato nei gruppi giovanili cattolici della sua Saar”. In Francia spicca il nome di Gilber Dru uno dei “caduti più famosi della Resistenza francese proveniente dalle file delle organizzazioni di Azione Cattolica”.
Tornando in Italia l’Azione Cattolica ha visto “cadere 1279 soci e 202 assistenti, mentre furono insigniti di medaglia d’oro al valore ben 112 tra soci e assistenti. Le medaglie d’argento furono 384 e quelle di bronzo 358”. Dati importanti che, dice l’autore, inducono ad un necessario “recupero della memoria associativa”.
E’ diffusa la convinzione che per la maggior parte dei resistenti cattolici mancarono specifiche motivazioni politiche. A differenza dei partigiani comunisti ed azionisti per i cattolici, come dice Teresio Olivelli – giovane proveniente dall’esperienza della Fuci – fu un’autentica “rivolta morale”. Su “Il Ribelle” scrive “Siamo dei ribelli: la nostra è anzitutto una rivolta morale. Contro il putridume in cui è immersa l’Italia svirilizzata, asservita, sgovernata, depredata, straziata, prostituita nei suoi valori e nei suoi uomini”.
Anche l’Azione Cattolica ebbe i propri “giusti”. Tra i nomi spicca quello del carpigiano Odoardo Focherini, dirigente dell’Azione Cattolica che in simbiosi con don Dante Sala organizza “una rete di soccorso e di salvataggio che procurava il passaggio clandestino in Svizzera degli ebrei provenienti dalle città emiliane e romagnole”. Verrà arrestato e trasferito nei lager di Flossenburg e Hersbruck dove muore il 27 dicembre 1944 “assistito dal compagno di sventure Teresio Olivelli”.
Anche Gino Bartali, popolarissimo ciclista, detto “Ginettaccio” per il suo carattere brusco e polemico, e socio della Giac dell’Azione Cattolica “fra il settembre 1943 e il giugno 1944 effettuò circa 30 viaggi lungo il percorso Firenze-Assisi-Firenze per salvare gli ebrei. Il suo compito era quello di passare nel duomo di Firenze e recuperare nascoste nella cassetta delle elemosine le foto di ebrei che bisognava dotare di documenti falsi. Infilate le foto nella canna della bicicletta, Gino partiva pedalando alla volta di Assisi”. Sia Odoardo Focherini che Gino Bartali hanno ricevuto il riconoscimento di “Giusti tra le Nazioni” secondo i criteri stabiliti dal Museo-memoriale di Yad Vashem.

domenica 10 maggio 2015

Il cippo in memoria del dott. Ezio Tornadù, di don Francesco Cavallini e di don Carlo Riva, esponenti della Resistenza legnanese.

25 aprile 2014, Cimitero Monumentale di Legnano, Campo dei Partigiani: scoperto un cippo in memoria del dott. Ezio Tornadù, di don Francesco Cavallini e di don Carlo Riva, esponenti della Resistenza legnanese.


Da sinistra il partigiano della Carroccio Achille Carnevali, il presidente ANPI Legnano Luigi Botta, il sindaco di Legnano Alberto Centinaio e la partigiana della 182^ Brigata Garibaldi SAP Piera Pattani

tratto da
http://www.legnanonews.com/news/1/37475/25_aprile_legnanesi_in_guerra_partigiani_fascisti_resistenti

DOTT. EZIO TORNADU’
La Farmacia della Stazione, in via Liberazione 2, iniziò la sua attività nel 1905 e attorno agli anni ’30 il dott. Ezio Tornadù ne divenne titolare.
Spesso il dottore si faceva aiutare a confezionare i famosi “cachet” dai ragazzi del vicino cortile Nava, ora scomparso per far posto al sottopasso e di cui rimangono solo una parte delle abitazioni, con le caratteristiche ringhiere, sul lato vicino alla stazione.
All’armistizio dell’8 settembre 1943 ed il conseguente inizio della Resistenza il dott. Tornadù non ebbe dubbi sulla parte da cui stare.
Anacleto Tenconi (il primo sindaco di Legnano liberata) nel suo “Rapsodia in tono minore” ricorda il primo incontro ufficiale tra la Resistenza legnanese di orientamento cattolico, rappresentata in quell’occasione dallo stesso Tenconi e da Neutralio Frascoli, e quella di orientamento comunista, rappresentata dall’Organizzazione dei fratelli Venegoni ed in particolare quella sera da Guido Venegoni e Arturo Fusetti. La Resistenza a Legnano operò fin d’allora in modo collaborativo ed il dott. Tornadù fornì aiuti materiali, bende, medicinali, unguenti, cicatrizzanti, disinfettanti per i partigiani di città e per quelli di montagna, tramite staffette che portavano il materiale medico al ponte di Marnate, all’imbocco della Valle Olona, dove si faceva trovare qualche partigiano delle formazioni di montagna, con una mezza lira di carta che doveva combaciare con la mezza lira in possesso della staffetta, come riconoscimento.
Talvolta al ponte di Marnate scendeva qualche partigiano malato, la staffetta volava in bicicletta alla Farmacia della Stazione, spiegava i sintomi al dott. Tornadù e tornava dal partigiano con i medicinali adatti.
Ma il dott. Ezio Tornadù non si limitava a questo: andava lui stesso nelle case in cui venivano ricoverati i partigiani malati o feriti per curarli.
Un episodio rimasto nella memoria storica di Legnano è legato a Samuele Turconi, nome di battaglia “Sandro”, comandante della 101^ Brigata Garibaldi “Giovanni Novara” GAP della Mazzafame, ferito molto gravemente durante lo scontro avvenuto il 21 giugno 1944 alla Cascina Mazzafame, quando, in seguito ad una delazione, 250-300 fascisti da Busto Arsizio piombarono su una quindicina di partigiani ivi radunati. Samuele Turconi venne ferito due volte, catturato, portato all’ospedale di Busto ed operato d’urgenza. Verso l’8-10 luglio Angelo Montagnoli, capo delle Brigate Nere di Legnano, gli preannunciò la fucilazione in piazza per l’indomani mattina ma con un’azione da commando armato quattro partigiani, tra cui Guido e Mauro Venegoni, riuscirono alle dieci di sera a portarlo in salvo presso la casa della staffetta Angela Allogisi in Grassini, in via Novara a Legnano. Pochi minuti più tardi il dott. Tornadù si presentò a casa dell’Allogisi per prestare le prime cure a Samuele Turconi che si stava dissanguando in quanto le ferite e i tagli dell’operazione non erano minimamente rimarginati. Il dott. Tornadù finì di medicarlo alle due di notte ma attese l’alba per evitare di incappare nelle pattuglie che cercavano il Turconi in tutta Legnano. Per i successivi dieci giorni, finchè il Turconi non dovette essere spostato altrove, il dott. Ezio Tornadù si presentò per le medicazioni tutti i pomeriggi, con grande rischio per la sua incolumità. Nel migliore dei casi era la deportazione in un lager, più spesso l’interrogatorio, la tortura e la fucilazione.
Fino al 1973 il dott. Tornadù rimase titolare della Farmacia, poi ne cedette la titolarità al cognato, dott. Felice Vitali, che nel 1987 la passò al figlio dott. Lorenzo Vitali, ex sindaco di Legnano.

DON FRANCESCO CAVALLINI
Don Francesco Cavallini dal 1° settembre 1926 era assistente dell’oratorio e coadiutore nella Parrocchia dei SS. Martiri, che allora comprendeva tutto l’Oltrestazione.
Il 27 giugno 1944 Renzo Vignati (19 anni) e Dino Garavaglia (18 anni), entrambi partigiani della 101^ Brigata Garibaldi “Giovanni Novara” SAP, vennero mortalmente feriti durante un tentativo di disarmo cui seguì uno scontro con preponderanti forze fasciste al ponte di San Bernardino. I due partigiani vennero ricoverati all’Ospedale di Legnano ma non sopravvissero. Il 4 luglio le Autorità diedero, controvoglia, l’autorizzazione a funerali privati. Si presentò invece una gran folla con numerose corone di fiori. Don Cavallini fece appena in tempo a benedire le bare che i fascisti le presero per portarle via.
Francesco Crespi, allora 17enne partigiano della 101^ GAP, raccontò nell’intervista, riportata nel libro “Giorni di Guerra” (di Giorgio Vecchio, Nicoletta Bigatti e Alberto Centinaio), come andarono le cose: «arriva il prete (don Francesco Cavallini) e dà la benedizione ai morti; poi arrivano i fascisti, prendono le casse e fanno per portarle via. Don Francesco li ferma e dice: “questi ragazzi li ho battezzati in Chiesa e in Chiesa devono venire”. Allora ci facciamo avanti in otto o dieci, prendiamo le bare e le portiamo in Chiesa. All’uscita vediamo che i fascisti hanno messo le mitragliatrici sul piazzale. Don Francesco si mette davanti, fa uscire le donne, poi tutti assieme andiamo al cimitero, guardati a vista dai fascisti. Questo fatto mi ha colpito molto, perché nessuno, ne’ il prete ne’ la popolazione che ha partecipato al funerale hanno avuto paura dei fascisti e delle loro mitragliatrici.»
Arrivati al cimitero, terminate le esequie, Francesco Crespi e gli altri che avevano portato le bare dovettero fuggire saltando il muro di cinta, inseguiti dai fascisti. Don Francesco Cavallini invece poté tornare indisturbato alla canonica. Per quel giorno l’aveva avuta vinta lui.
Ma una settimana dopo i brigatisti neri della Aldo Resega arrestarono don Francesco e lo rinchiusero nel carcere di San Vittore a Milano. Venne liberato solo il 25 aprile 1945.
Rimarrà in Parrocchia sino al 19 settembre 1948, quando prenderà possesso della Prevostura di S. Stefano in Segrate.

DON CARLO RIVA
“Nella mia parrocchia l’Azione cattolica era davvero di casa. Almeno la Giac – ovvero i Giovani – aveva una tradizione pluridecennale ed era stata per anni sotto le cure dell’assistente don Carlo Riva, un prete fegatoso che aveva davvero fatto la Resistenza, non disdegnando (così mi hanno raccontato testimoni oculari) di farsi vedere in giro, nei giorni dell’aprile ’45, con un mitra a tracolla. Del resto era stato membro importante del CLN legnanese e aveva concesso il soffitto della cappella dell’oratorio per nascondervi armi e munizioni” scrive Giorgio Vecchio nel libro a carattere autobiografico “Quelle sere in via sant’Antonio”.
Don Carlo era nato il 10 maggio 1914 a S. Maria Hoè, un paese della zona montuosa della Brianza. Ordinato sacerdote a 23 anni, dal 22 maggio 1937 don Carlo divenne il coadiutore nella Parrocchia legnanese di San Domenico. La sua missione era rivolta principalmente ai giovani, che invitava con entusiasmo a “vincere quel nervosismo che ci prende talvolta facendoci dimenticare anche i nostri doveri spirituali” e li esortava “a pregare molto”. Don Carlo seguiva l’Azione Cattolica, in tre anni il numero di iscritti alla GIAC era più che raddoppiato ma egli non era soddisfatto dello stato dell’associazione, stato che, in uno scritto del 4 marzo 1941, giudica “abbastanza deplorevole in confronto a qualche anno fa, sia per l’attività materiale, e più per l’assenza o quasi di vita spirituale nei singoli soci”.
Dopo lo scoppio della guerra don Carlo Riva esorta i suoi ragazzi a pregare “affinché la pace ridivenga stabile fra le nazioni”. Dopo l’8 settembre 1943 si trova ad assumere un ruolo di eccezionale delicatezza e rilevanza non solo per la Parrocchia di San Domenico ma per tutto l’Altomilanese, per la sua scelta di antifascismo e di Resistenza. Si tratta di una Resistenza di impronta cattolica, che ripudia gesti di violenza gratuita, tende più che altro a salvare, a nascondere e far fuggire verso le formazioni di partigiani di montagna o la Svizzera ebrei, renitenti alla leva o antifascisti in pericolo. Le attività in pianura si limitano a raccogliere armi, viveri, vestiario per i partigiani di montagna, per le formazioni cattoliche del Raggruppamento Divisioni Patrioti “Alfredo Di Dio”, attivo nell’Ossola e nelle valli circostanti. Per queste attività don Carlo collabora anche con le formazioni partigiane legnanesi di impronta comunista, la 101^ Brigata Garibaldi “Giovanni Novara” e dalla fine del 1944 la 182^ Brigata Garibaldi “Mauro Venegoni”, formatasi per scorporo della 101^ troppo numerosa. In particolare ebbe rapporti diretti con Giovanni Brandazzi, plenipotenziario del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) per la nostra zona.
Molti ricordano don Carlo in quegli anni come consigliere dei giovani, sollecitatore di vocazioni partigiane, punto di raccolta e smistamento di informazioni, di segreti militari, di documenti e persino di armi, che venivano nascoste nell’oratorio di San Domenico, in via Cavour 6, nel sottotetto della cappella a cui si accedeva con una certa difficoltà dal sottotetto dell’attiguo salone del cinema e teatro.
Don Carlo faceva anche politica, fino a rappresentare la neonata DC (Democrazia Cristiana) nel CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) di Legnano, prendendo contatto con i capi partigiani della zona come Alberto Tagliaferri e Bruno Meraviglia (Tenente Angelo). È in casa di don Carlo che ha avuto luogo l’incontro decisivo per la costituzione della Brigata “Carroccio” con la partecipazione di Anacleto Tenconi (Pacelli), Neutralio Frascoli (Temistocle), Elio Strobino (Sigma), Giovanni Parolo (Santamaria).
Don Carlo sosteneva anche la stampa clandestina, “La Martinella”, diretta da Anacleto Tenconi, stampata clandestinamente presso la parrocchia di Pogliano Milanese e distribuita grazie ad una rete di staffette in bicicletta. Aveva l’incarico di commissario e di cappellano della Brigata Carroccio.
Tutte queste attività attirarono l’attenzione dei fascisti, i quali tuttavia non riuscirono mai ad avere le prove per arrestarlo per più di qualche ora. Anche l’8 novembre 1944, in seguito all’attentato esplosivo all’Albergo Mantegazza, portato a termine da Samuele Turconi (detto “Sandro”, comandante della 101^ Brigata Garibaldi GAP) e Giuseppe Marinoni (detto ”Costa-Negri”, comandante della 101^ SAP), don Carlo venne fermato, portato alla sede della Polizia fascista al “Circul di sciuri” in via Alberto da Giussano (dove adesso c’è il bingo) ma venne semplicemente interrogato, senza subire le percosse e le torture a cui erano destinati i partigiani nelle cantine a cui si accedeva da una botola, e venne quasi subito rilasciato. In altre situazioni, tuttavia, don Carlo crederà più opportuno allontanarsi per qualche giorno da Legnano e vivere alla macchia con i suoi uomini.
Nel “Liber chronicus” della Parrocchia di Pogliano Milanese nel gennaio del 1945 si cita don Carlo, in occasione della fuga da Legnano di Guido Palmieri (Nino), delle formazioni partigiane cattoliche, ormai scoperto e a forte rischio di arresto. Il Palmieri viene nascosto presso la Cascina Impero dai signori Goegan, agricoltori ed affittuari. «Il 22 febbraio il giovane veniva rilevato in automobile da Don Carlo Riva di S. Domenico di Legnano - anima del movimento partigiano di Legnano - e passato alle formazioni partigiane della Valle del Toce della Democrazia Cristiana».
Intanto don Carlo e altri preti, come don Ettore Passamonti di Legnanello,tra cui lo stesso mons. Virgilio Cappelletti, pensano al futuro e organizzano incontri più o meno clandestini, spesso camuffati da ritiri spirituali, per discutere dei radiomessaggi di Pio XII sulla dottrina sociale della Chiesa e sulla democrazia: ci si ritrova in casa dello stesso prevosto di San Magno, oppure presso i frati di Cerro Maggiore, o ancora all’asilo De Angeli Frua in via Venezia a Legnano.
Il 27 aprile 1945 in una sala del Palazzo Italia (ex Littorio, all’angolo tra la via Gilardelli e la via Matteotti, di fronte al Municipio) le forze partigiane si uniscono: nasce a Legnano la “Divisione Mauri”, formata dalle due Brigate Garibaldi 101^ e 182^, rappresentate dal loro comandante Mario Cozzi (Pino), e dalla Brigata del Popolo “Carroccio”, rappresentata dal don Carlo Riva. Potete trovare tutti i particolari nella testimonianza di Mario Cozzi in “Due inverni un’estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943-1945” di Luigi Borgomaneri, a pagg. 382-384 dell’edizione 1985.
Nell’immediato dopoguerra don Carlo si diede da fare per attirare maggiormente i giovani verso l’Azione Cattolica e la Democrazia Cristiana e organizzò un campeggio estivo per giovani, recuperando materiale lasciato dagli americani, una tradizione che continuò poi negli anni.
Nel 1962 don Carlo Riva lasciò Legnano per diventare Parroco a Bareggio. Morì nel 1990.

Chi uccise Mussolini? E perchè???



Chi uccise Mussolini? E perchè???

https://youtu.be/EAiH3kCjMY8


Bruno Giovanni Lonati - National Geographic 2013




Bruno Lonati, nato a Legnano il 3 giugno 1921, faceva parte della Resistenza legnanese, in forze al gruppo di lavoratori della metalmeccanica Franco Tosi appartenenti alla 101^ Brigata Garibaldi SAP "Giovanni Novara".





A Legnano il 4 novembre 1944 alle ore 21, in accordo col CLN di Milano, era stato effettuato un attentato all’Albergo Mantegazza, situato in corso Vittorio Emanuele, attuale corso Italia, vicino alla stazione, con l’esplosione di due bombe autocostruite a miccia cortissima.







Autori Samuele Turconi, (Sandro) comandante della 101^ Brigata Garibaldi GAP (Gruppo di Azione Patriottica, chi viveva in clandestinità ed effettuava le azioni più rischiose) e Giuseppe Marinoni (Costa-Negri), che dicono assomigliasse tanto a Charles Bronson, proveniente da Milano, comandante della 101^ SAP (Squadra di Azione Patriottica, legata alle fabbriche).





Secondo i bollettini di guerra della 101^ si trattò di una brillante azione che ebbe i seguenti effetti: “locale e adiacenti fuori uso per parecchio tempo; tre morti (due ufficiali tedeschi e una spia), 25 feriti fra cui sei gravi. Tutti indistintamente i feriti sono il fior fiore della feccia fascista locale.”


L’attacco suscitò l’immediata reazione delle autorità tedesche e fasciste con il fermo di diversi antifascisti. Una delle potenziali vittime della repressione fascista poteva essere Bruno Lonati.



Bruno Giovanni Lonati

Il partigiano Bruno Lonati racconta così la sua storia:


“Ero il Commissario Politico della 101^ Brigata, anche se di politica mi occupavo poco. … La squadra della Guardia Repubblicana fascista guidata dai fratelli Montagnoli era arrivata in via Calatafimi. … Fui fortunato perché all’ultimo piano c’erano due appartamenti. Uno era intestato a me, l’altro a Francesca, una mia partigiana, che al momento non era sospettata. Mi trattenevo sempre nella sua casa, per cui quando avvertii il rumore degli scarponi dei militi fascisti che salivano le scale e si dirigevano verso la mia abitazione, compresi cosa si preparava per me. Fuggii subito, prima che sfondassero la porta”.

Era il 6 o il 7 di novembre 1944, Bruno, scivolando da un tetto ghiacciato mentre fuggiva dalla propria abitazione, si fa male ad una caviglia ed alla schiena e viene soccorso dal comandante Samuele Turconi e da Francesca Mainini (la Francesca citata dal Lonati, importante staffetta di collegamento tra le brigate legnanesi 101^ SAP e 101^ GAP e il CLN di Milano nonchè collaboratrice di Turconi per gli attentati). Bruno Lonati viene ricoverato presso la mamma di Francesca a Vanzaghello.

Una volta guarito Bruno non tornò più a Legnano, cambiò il suo nome di battaglia da Valeri in Giacomo e si inserì nella Resistenza di Milano.


Bruno sostiene che non è stato Walter Audisio (il colonnello Valerio) a fucilare Mussolini ma tutt'altra persona.

Nel video qui sopra proposto
https://youtu.be/EAiH3kCjMY8 e nel libro da lui scritto "Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità" Bruno Lonati svela la sua versione dei fatti: chi uccise Mussolini e perchè.

Il libro è disponibile presso la Biblioteca di Legnano.






Bruno Lonati nel 1945

Biografia di Bruno Lonati:
http://www.benitomussolini.eu/biografia.html

Manoscritto di Bruno Lonati, riassunto del libro:
http://www.benitomussolini.eu/manoscritto.html

La versione di Bruno Lonati:
http://www.legnanonews.com/news/1/37552/

Churchill ordinò l'omicidio di Benito Mussolini?
http://lombardia.anpi.it/voghera/archivio/2010/3trim/milza.htm


Video Rai Tre - Mussolini, l'ultima verità
https://youtu.be/_owrwqq6HCg







giovedì 7 maggio 2015

Cosa accadde ai fascisti legnanesi dopo il 25 aprile

Cosa accadde ai fascisti legnanesi dopo il 25 aprile



L'immagine scattata nell'immediato dopo guerra è ripresa dal sito di Apil

articolo tratto da 


Una volta liberata Legnano era giunto il momento di defascistizzare la società, a partire dalle cariche istituzionali, dai simboli degli edifici, dai nomi dei palazzi e delle vie e dalla scuola. Nell’archivio comunale è conservata l’ordinanza con la quale si chiedeva agli istituti scolastici e ai librai di tagliare, proprio con le forbici, le pagine che esaltavano il regime prima di utilizzare o vendere i libri. E sono conservate alcune dichiarazioni in merito l’ottemperanza della circolare.
La defascistizzazione è passata anche attraverso l’arresto, a partire dal 25 aprile, dei più importanti  fascisti. Alcuni sono stati rilasciati subito, come l’industriale Gigetto Ratti della manifattura Giulini e Ratti: la valorosa staffetta della 182^ Brigata Garibaldi SAP nonché preziosa collaboratrice del comandante Mario Cozzi (Pino) della 101^ e 182^ SAP, Piera Pattani ricorda che “il 25 aprile sono andati a prenderlo. Io ero molto impegnata perché ero qui, nelle scuole [Carducci, diventata caserma dei partigiani], mi dicono “Piera, a in andà a tö ul Gigetü [sono andati a prendere il Gigetto]”. “Ah, momento!” Allora sono andata, ho detto “No! Lo lasciate andare perché quello m’ha aiutato me e ha aiutato tutti!” ... Quello che ha detto lui non so. So che c’erano tutti i suoi operai della via Guerciotti che c’han sputato addosso tutti. Dopo ho detto loro “Siete stati malvagi, perché m’ha dato tutto: olio, riso, tutto!” A tutti, a tutta la fabbrica! Non solo a me: a tutta la fabbrica! Quando poi m’han detto che l’han portato via, io sono andata e c’ho detto “No!!!” Pensi che lui, dallo spavento, poco dopo è morto…”.
Altri fascisti sono stati inviati al carcere di San Vittore a Milano e da lì al campo di concentramento di Coltano, vicino a Pisa. Sono tornati tre o quattro mesi più tardi.

Fucilazioni senza processo
Ad altri è andata meno bene. Ma questo è comprensibile se si pensa che il giorno della Liberazione non aveva significato automaticamente la sconfitta delle forze fasciste. E poi una guerra totale come il Secondo conflitto non poteva finire semplicemente con le giornate del 25 Aprile.
Fino ai primi di giugno a Legnano e nei dintorni  si registrano ripetuti spari e lanci di bombe. La notte tra il 2 e il 3 di giugno due bombe vennero lanciate contro la caserma partigiana garibaldina Carducci, tra il 5 e il 6 delle bombe a Rescaldina hanno provocato anche un ferito, appartenente alla 101^ Brigata Garibaldi. Il 31 luglio il Prefetto di Milano decide la chiusura anticipata di alcuni locali “in considerazione del continuo ripetersi di atti terroristici, rapine a mano armata e ribellioni alla Forza Pubblica nella zona di Legnano”.
L’elenco dei criminali della RSI inoltre era lungo e il desiderio di ottenere giustizia ed ottenerla subito portò negli immediati giorni dopo la Liberazione a numerosi episodi di giustizia sommaria in tutte le località del nord, nonostante gli appelli del clero e le direttive del 20 aprile del CLN Alta Italia per le commissioni di giustizia. Anche a Legnano.
Il “Circul di sciuri”, le carceri di San Martino in via Bellingera, il Palazzo Littorio (attuale Palazzo Italia) erano i principali “luoghi dell’orrore” legnanesi. Oltre ai militi vi esercitavano le funzioni di “picchiatori” diversi civili che venivano convocati all’occorrenza e profumatamente pagati. Anche i delatori non mancavano e il prezzo fissato, erogato in seguito all’eventuale successo dell’operazione, era di 5.000 lire per ogni partigiano. 
Tra i documenti del comandante Mario Cozzi sono conservate delle “veline” in cui sono segnalati i dati anagrafici e le principali abitudini di alcune note spie legnanesi, tra cui C.V. che si vantava d’aver guadagnato 10.000 lire per la delazione che aveva portato all’arresto del vice-comandante della 101^ Brigata Garibaldi GAP Giuseppe Rossato, in seguito torturato, incarcerato a San Vittore a Milano e fucilato al Campo Giuriati il 14 gennaio 1945, e di uno dei comandanti della 101^ SAP, Francesco Marcer, riuscito a fuggire con la complicità degli infermieri, calandosi con delle lenzuola da una finestra del bagno, dall’Ospedale di Legnano, ove era stato ricoverato in seguito ad un malore per le percosse durante gli interrogatori.
Nella notte tra il 30 aprile ed il 1° maggio vennero rinvenuti sotto il ponte di San Bernardino i corpi di quattro fascisti: Rabolini, Toja, Bovini, Corradini. 

Arturo Sesler
Il capitano delle Brigate Nere Arturo Sesler venne prelevato da non si è mai saputo chidirettamente dall’ospedale e in pigiama fucilato e lasciato ai piedi della fontana di piazza San MagnoSul cadavere poi si accanì la folla. 
Su di lui poi si sedimentarono memorie contrapposte: ci fu chi vide in lui una “bieca figura di delinquente fascista” (da un documento di fonte partigiana) e ci fu chi invece mise in luce gli ideali, lo spirito di sacrificio e la coerenza morale. 

Antonio Montagnoli
Il 5 maggio venne fucilato pubblicamente a Castano il legnanese Antonio Montagnoli, crudele squadrista delle Brigate Nere, fratello del tenente delle Brigate Nere Mario e del Brigadiere della GNR Angelo, morto a Castellanza il 23 aprile 1945 in uno scontro a fuoco con dei partigiani della 101^ e 182^ Brigata Garibaldi SAP. 

Carlo Borsani
Un altro legnanese perse la vita, fucilato dai partigiani, nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione: si tratta di Carlo Borsani, esponente di rilievo nella Repubblica Sociale Italiana.
Era stato nominato Presidente dell’Associazione Nazionale Mutilati in quanto gravemente ferito alla testa il 9 marzo 1941 in Grecia durante un’operazione di guerra che lo aveva lasciato privo della vista e per la quale gli era stata conferita una medaglia d’oro. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 Carlo Borsani si era dato alla propaganda a favore dell’arruolamento nella GNR dei renitenti alla leva e degli Internati Militari Italiani negli Stalag e Oflag di Germania e Polonia, divenendo presto famoso con l’appellativo di “cieco di guerra”.
La sua appassionata propaganda lo aveva già inserito nelle liste dei fascisti pericolosi da eliminare, tanto che agli inizi di aprile 1945 per un soffio, grazie al suo attendente, era uscito incolume da uno scontro a fuoco con dei partigiani a Gallarate, dove risiedeva da qualche tempo (“Cronaca Prealpina”, 8 aprile 1945). 
Il Borsani trascorse la sera del 25 aprile 1945 a Milano con i Marò della X-MAS e la notte all'Albergo Nord in Piazza della Repubblica dove, al mattino, rifiutò l'offerta di Borghese di un espatrio al seguito di Mussolini. Si rifugiò all'Istituto Oftalmico, dove era in cura da anni per la sua cecità. Il 27 venne individuato dai partigiani, prelevato e rinchiuso nei sotterranei del Palazzo di Giustizia, nel pomeriggio del 29 aprile, insieme a don Calcagno, fanatico predicatore a favore della RSI e di Mussolini, venne condotto nelle Scuole di Viale Romagna e da lì in Piazzale Susa dove venne fucilato.

Fucilazioni sommarie all’Olmina
La notte tra il 6 e il 7 maggio forse ad opera dei partigiani bustocchi vennero prelevati dalle carceri di San Martino a Legnano undici fascisti, portati a piedi alla cascina Olmina e qui fucilati e lasciati esposti: Carlo Bergonzi, Luigi (Fain) Clerici, Rinaldo Corno, Giovanni Fiumi, Vittorio Maerna, Attilio Martignoni, Emilio Pagani, Argenide Peressini, Giulio Salmoiraghi, Giovanni Battista Scrugli, Bruno Tiraboschi.
Tra i fucilati il noto medico Carlo Bergonzi, che aveva lo studio in via Marconi. Molti si stupirono di questa fucilazione e pensarono ad uno sbaglio o ad una vendetta privata. Probabilmente non sapevano che il medico era inquadrato nelle GNR col grado di Maggiore Medico e non sapevano un altro particolare. A dicembre 1944 era stato catturato il partigiano della 101^ Brigata Garibaldi SAP Filippo Zaffaroni, 17enne, definito dai fascisti come “pericoloso bandito”: Filippo era stato torturato nelle cantine al “Circul di sciuri”, la sede dell’UPI in via Alberto da Giussano (dove adesso c’è il Bingo) e a tenergli il polso per monitorarlo mentre gli davano scosse elettriche con delle piastre applicate alle tempie c’era il dottor Bergonzi. E non solo in quell’occasione era stato coinvolto nelle torture dei partigiani. 
Il  14 successivo, nei pressi di Villa Cortese, venne fucilato anche l’ex podestà Fulvio Dimi.

Il processo
Altro destino invece per tre fascisti che vennero incarcerati a Busto e processati al Tribunale Straordinario alla caserma partigiana insediatasi nelle scuole Carducci. Su di essi pendevano vari capi d’accusa:
“1) Capitano Nucci: capo dell’UPI di Legnano – tristemente famoso come seviziatore dei detenuti politici. Responsabile della fucilazione di molti partigiani;
2) Tenente Montagnoli Mario: Comandante della Brigata Nera di Legnano – di una famiglia di spie fasciste responsabili di numerosi delitti. Torturatore e seviziatore di partigiani – particolarmente responsabile dell’uccisione di cinque patrioti;
3) Dr. Santini: per molto tempo Vice-Commissario dell’Ufficio Politico della Questura di Milano. Tristemente noto per la sua crudeltà. Commissario di P.S. di Legnano durante la Repubblica, particolarmente accanito nella lotta e nella caccia ai partigiani” (da “Giorni di Guerra. Legnano 1939-1945”).
Essi inoltre erano accusati di aver fatto fuoco sulla folla e sui partigiani il 25 aprile.

9 maggio 1945. Il “Piazzale Loreto” legnanese   
9 maggio. Monsignor Cappelletti annota: “Ore 15. Mons. Prevosto è invitato a portarsi alle Scuole Carducci per ascoltare la Confessione di tre condannati. … I tre vengono condotti a piedi al luogo del supplizio – P. Mercato – Mons. è al loro fianco. Si cammina tra due ali di popolo imbestialito. Appoggiati al muro di cinta dello stabilimento De Angeli Frua mentre Mons. Prevosto dà l’ultima benedizione un plotone di 12 comunisti spara e tutti e tre cadono fulminati.”
In quell’occasione ci furono diversi feriti perché la folla iniziò a sparare addirittura prima che i garibaldini  del plotone facessero fuoco e per poco non colpirono anche Monsignore. 
La folla si accanì poi sui cadaveri, come accadde per Sesler, come per Mussolini a Piazzale Loreto.
Se il compito della riflessione storica è quello di comprendere, allora il contesto storico in cui nacquero le uccisioni deve essere tenuto in considerazione.
Come ha scritto lucidamente il partigiano Ermanno Gorrieri: “Molta rabbia si era accumulata negli animi. Era impossibile che non esplodesse dopo il 25 aprile. Violenza chiama violenza. I delitti che hanno colpito i fascisti dopo la liberazione, anche se in parte furono atti di giustizia sommaria, non sono giustificabili, ma sono comunque spiegabili con ciò che era accaduto prima e con il clima infuocato dell’epoca” (Ermanno Gorrieri, “Ritorno a Montefiorino”, p.183).
Non dimentichiamo che subito dopo l’8 settembre del ’43 nacque una terribile guerra civile tra italiani (partigiani e fascisti) che non poteva placarsi sic et simpliciter alla fine della guerra.
Durante l’insurrezione e nei giorni immediatamente successivi furono uccisi in Italia tra i 10.000 e i 12.000 fascisti, a fronte di 3-4.000 morti nella guerra antipartigiana. In Francia andò peggio ai collaborazionisti dei fascisti perché nell’epuration sauvage del dopo liberazione furono uccisi sommariamente tra le 17 e 18.000 persone (agosto-ottobre ’44).

Mussolini alla sbarra?
Poteva essere un’ipotesi suggestiva. Sappiamo come è andata.  Non c’è dubbio che un processo a Mussolini e a tanti alti gerarchi fascisti, grandi e piccoli, avrebbe potuto rivelare la vera natura del fascismo durante il Ventennio e a Salò. Una dittatura che non si librava nel vuoto ma al contrario poggiava saldamente su aperte complicità dei poteri forti dell’epoca: monarchia, industriali, banchieri, burocrazia, esercito, proprietari terrieri, Vaticano, piccola-media borghesia …
Chiudere tutto a Giulino di Mezzegra (fucilazione di Mussolini) e a Dongo (e in tanti piccoli e medi centri come Legnano) ha impedito quella radicale pulizia politico-sociale che era nelle aspirazioni di una buona parte dei partigiani.
E così l’Italia della fine degli anni Quaranta apparve a molti troppo simile all’Italia degli anni Trenta.

Giancarlo Restelli e Renata Pasquetto


Per saperne di più:
. Giorgio Vecchio, Nicoletta Bigatti e Alberto Centinaio, “Giorni di guerra. Legnano 1939-1945”, Eo Ipso, 2009
. “Legnano, 25 aprile: i giorni della liberazione” dalla fine del 1944 al 9 maggio 1945, con particolari e fotografie a questo link: https://drive.google.com/file/d/0B2oiTbuM9ihjbjdXczR3R3pPam8/view?usp=sharing